Tecnologie e violenza sulle donne. Un’intervista a Ingenere.it
Barbara Leda Kenny intervista Lavinia Hanay Raja del gruppo Ippolita per la rivista Ingenere.it
Capitalismo digitale
Qual è la relazione tra tecnologie e violenza di genere e quali sono gli strumenti femministi per contrastare le nuove forme di controllo e oppressione nei confronti delle donne e delle persone diverse dai maschi bianchi nel contesto digitale? L’abbiamo chiesto a Lavinia Hanay Raja, femminista queer del collettivo Ippolita, un gruppo di ricerca indipendente che dal 2005 si occupa di culture digitali.
“In questi anni mi sento molto vicina alla sensibilità dei nuovi movimenti transfemministi e alle loro compagini più propriamente trans e non binarie” ci racconta. “La mia cultura tecnologica si è formata nell’hacklab Reload a Milano, mentre studiavo avidamente Haraway, Braidotti e Deleuze”.
Con Ippolita avete pubblicato diversi libri sugli effetti politici e sociali delle tecnologie che sono stati tradotti anche all’estero, qual è stato il risvolto più importante di questa attività e qual è la vostra linea editoriale?
Le pubblicazioni di Ippolita hanno contribuito a creare nel nostro paese una sponda critica dell’informatica che fosse in collegamento con il dibattito più avanzato e di ricerca. Il nostro approccio autoriale è interdisciplinare: i saperi tecnici si intersecano con quelli umanistici, dando vita a un’analisi tecno-politica orientata a una visione antiautoritaria dei saperi scientifici. Da qualche anno curiamo anche una serie di collane di libri con un taglio intersezionale.
Puoi farci qualche nome delle autrici che avete pubblicato e che state pubblicando, anche per dare un’idea a chi ci legge del tipo di scritture che state portando in Italia?
Abbiamo portato in Italia la trilogia sulla scuola di bell hooks e le opere di filosofia della tecnica di Bernard Stiegler, ma anche Gloria Anzaldua e Audre Lorde, e le analisi tecnologiche di Simone Browne e Alexander Galloway. Dal lavoro del collettivo sulle tecnologie sono nati inoltre dei percorsi formativi che stanno coinvolgendo le accademie di belle arti, chi si occupa di accompagnamento delle persone civili nelle aree di conflitto, o lavora nell’ambito della psicologia e della psicoterapia, nell’accompagnamento delle persone minori (e adulte) all’uso consapevole degli strumenti digitali, nella formazione per i centri antiviolenza. In alcuni casi, per fare formazione usiamo il metodo del gioco di ruolo.
Qual è secondo te il nesso più pericoloso fra tecnologie e violenza contro le donne?
I nessi fra queste due aree sono molti, ma per fare un’analisi completa occorre avere ben chiare almeno tre caratteristiche strutturali delle tecnologie digitali per come sono stata concepita: la sorveglianza, la cultura del rischio e la gamificazione. Questi elementi relativi ai modelli di business vengono implementati nel design commerciale, creando forme di violenza sistemica contro le donne e tutti i soggetti già inferiorizzati dalla cultura patriarcale. Gli strumenti tecnologici attualmente più usati si basano sulla sorveglianza e avvantaggiano le applicazioni dedicate al controllo diffuso: domestico, parentale, di coppia, di quartiere, eccetera. In questo modo viene promossa nella società, già fortemente securizzata, una vera e propria cultura del controllo, che si accompagna sempre più spesso a una retorica della cura come presa in carico morale della società.
Perché oggi è così importante rendere visibile questo legame?
Shoshana Zuboff ha definito l’attuale capitalismo tecnologico come “capitalismo della sorveglianza”, una logica estrattivista basata sul monopolio di un gruppo ristretto di aziende focalizzate sull’accumulo smodato di capitale e in costante crescita. La violenza digitale contro le donne si sviluppa dunque in un contesto favorevole, sia per l’ampiezza dell’offerta commerciale di app di sorveglianza, che per via del fatto che il controllo non viene riconosciuto come coercitivo, ma è normalizzato dalle pratiche tecnologiche quotidiane.
Stai parlando dell’accesso ai dati personali e di come questi vengono raccolti e gestiti?
Tutti i servizi e le applicazioni web si basano sull’identificazione minuziosa, il controllo pervasivo e la raccolta massiva dei dati dell’utenza. Il fatto che, ad esempio, nel capitalismo della sorveglianza non ci sia alcuna differenza tra persone adulte e bambine ci fa capire il livello di fragilizzazione a cui siamo esposte già dall’infanzia. In ambito tecnologico, e in particolare per quanto riguarda i nessi fra tecnologie e violenza di genere, è importante riconoscere che il controllo è una tipologia di violenza e che va per questo contrastata in tutte le sue forme. Il secondo e il terzo elemento che contribuiscono a creare forme immanenti di violenza sono la cultura del rischio e la gamificazione, residui della cultura neoliberale che si infiltrano in tutta la nostra vita “onlife”.
Esattamente, in che modo avviene tutto questo?
Per mezzo della numerificazione delle esperienze, cioè dell’attribuzione di un punteggio espresso in numeri, veniamo educate a produrre una narrazione parossistica della nostra identità e della realtà che ci circonda. L’innesco necessario per alimentare i contesti gamificati nei quali siamo immerse è la competizione. La gamificazione mutua le regole dei giochi competitivi in contesti che non sono di gioco, celando la propria capacità di manipolazione, e diventando di fatto una forma di abuso. Attraverso l’automatismo del gioco, che stimola la dopamina catturandoci nell’astrazione ambientale, le pratiche di controllo vengono trasformate in fonti di piacere.
E quali sono le conseguenze più significative?
L’obiettivo del mercato relazionale aperto con le nuove tecnologie è il self branding, che, di fatto, è una pratica di reificazione del sé, in cui cerchiamo di aderire il più possibile ai modelli dominanti di bianchezza, procacità sessuale, magrezza, capacità economica, eccetera. Che si tratti del rating su Airbnb o di Tinder, tutto concorre a stimolare l’attenzione e la paura di perdere il proprio capitale, sia esso economico o reputazionale. In alcuni casi, abbiamo chiamato foucaultianamente questa sovrapposizione “reddito psichico”. L’illusione è che, se siamo abbastanza spregiudicate, la tecnologia funzionerà come ascensore sociale.
All’interno di questo processo, qual è o dovrebbe essere il ruolo del femminismo?
La cultura del controllo e del rischio sono proprie di un modello di società machista e coloniale, in cui la proprietà delle persone in qualità di oggetti e l’adrenalina della scommessa costituiscono i presupposti in cui sono immerse le tecnologie. Tecnologie i cui titoli borsistici non conoscono flessione. Per questo è molto importante che, come femministe, ci interroghiamo su come le tecnologie sostengano forme di violenza epistemica e concretizzino sistemi di subordinazione delle donne e di tutte le soggettività inferiorizzate. È urgente una critica transfemminista delle tecnologie che non si limiti ai contenuti da veicolare all’interno dei contesti digitali, ma che metta in discussione come questi contesti sono progettati e il funzionamento delle infrastrutture che li sorreggono.
Continua la lettura su Ingenere