Federico Zappino. Eterofobia.

Un estratto dal volume di Federico Zappino, Comunismo queer. Note per una sovversione dell’eterosessualità. Casa editrice Meltemi 2019, collana Culture Radicali. L’estratto è comparso su Lavoro Culturale.
[Immagine di copertina scritta sui muri di Bologna]

Federico Zappino, Eterofobia. Più volte, ai limiti dell’ostracismo, mi è stato detto che l’uso che faccio della parola “eterosessualità” è impreciso, o equivoco. A tali rimostranze, di solito, sembra non essere sotteso un invito a precisare maggiormente cosa intendo, da un punto di vista analitico o concettuale, bensì un invito ad abbandonare del tutto la categoria in favore di altri modi di esprimermi, più rispettosi. Perché non eteronormatività, Norma eterosessuale, eterosessismo, eterosessualità obbligatoria[1]? Perché eterosessualità, e basta?

A scanso di equivoci, tutte queste declinazioni o aggettivazioni della parola “eterosessualità” sono ancora valide. Anche al di là della loro rilevanza storica e politica, ciascuna di esse ci consente ancora oggi di cogliere, e di problematizzare, una sfumatura del fenomeno: parlare di “obbligatorietà” (come nel caso di “eterosessualità obbligatoria”) non significa infatti parlare di “norma” (“Norma eterosessuale”); e i suffissi “-normatività” (“eteronormatività”) e “-ismo” (“eterosessismo”), a loro volta, non sono intercambiabili. Si tratta di concetti tra loro adiacenti, ma tuttavia distinti, e ciascuno di essi dovrebbe esortarci a comprenderlo, e a usarlo, facendo riferimento a lessici e a movimenti diversi, del pensiero e della pratica. Il lesbofemminismo, il freudomarxismo, il femminismo separatista, o il queer sono solo alcuni di questi movimenti, le cui differenze, mi sembra, si stemperano proprio a fronte di questa continuità temporale della riflessione sull’eterosessualità, quali che siano i modi in cui venga chiamata.

Al di là di questo, mi sembra anche di poter dire che sottesa all’ostracismo eterosessuale, in fondo, sia una richiesta di rassicurazione circa il fatto che l’eterosessualità, intesa come pratica affettiva e sessuale, non possa, e forse non debba, essere ridotta a un “obbligo”, a una “norma”, a un’“ideologia”, o a una forma di “razionalità”. E che, di conseguenza, un conto sono le declinazioni dell’eterosessualità in quei termini radicalmente critici; un altro, invece, le esperienze di soggettivazione e di relazione eterosessuali particolari e situate, più o meno libere, più o meno consapevoli, e felici – come tutte le forme di soggettivazione e di relazione. Mancare di sottolinearlo, mancare cioè di specificare di cosa sto parlando, mi esporrebbe a due particolari rischi. Il primo consisterebbe nel propugnare un proposito sovversivo a dir poco anacronistico: come si può, infatti, continuare a investire energie nell’auspicio di sovversione dell’eterosessualità, proprio nell’ora in cui “empiricamente”, come ha scritto Nancy Fraser, il capitalismo contemporaneo non sembra averne più bisogno[2]? E quanto al secondo rischio, sarebbe ancora più insidioso del primo: parlare di sovversione dell’eterosessualità mi esporrebbe al pericolo di tirare acqua al mulino dei movimenti neofondamentalisti e, in particolare, all’accusa di “eterofobia” che tali movimenti già muovono nei riguardi di coloro che definiscono “omosessualisti”, o adepti alla “teoria del gender”, o “ideologia del gender”.

Fin da subito, occorre precisare che l’apprensione per la minaccia di una dilagante “eterofobia” non sia affatto circoscritta alla pamphlettistica dei movimenti neofondamentalisti e neofascisti, attualmente presenti sulla scena internazionale. Tutt’al contrario: ogni qual volta, in quanto minoranze di genere e sessuali – ossia, in quanto unici soggetti legittimati a parlare della nostra oppressione – ci permettiamo di far deragliare la critica dal binario morto della lotta a una generica omo-transfobia, per condurla verso un binario la cui destinazione appare invece più promettente (quello della critica dell’eterosessualità), veniamo in effetti tacciate di eterofobia, ossia di disprezzo e odio per le persone eterosessuali[3]. E innanzitutto per gli uomini eterosessuali, dal momento che sono loro, curiosamente, a sentirsi maggiormente attaccati da tale critica. Fenomeno, questo, che possiamo interpretare adeguatamente solo se teniamo in debita considerazione le sostanziali asimmetrie di potere, e dunque di responsabilità, che sussistono tra uomini e donne eterosessuali nella riproduzione dell’eterosessualità stessa e dei suoi effetti in termini di coercizione, di violenza, di esclusione o di inclusione condizionale. I quali – se stiamo ad esempio ai dati costanti di maltrattamenti, stupri e uccisioni che si consumano in larga parte nell’ambito delle relazioni che, per amore o per forza, si trovano a intrattenere con gli uomini – ricadono innanzitutto sulle stesse donne. Con ciò non intendo sottostimare l’attiva partecipazione delle donne alla riproduzione dell’eterosessualità e dei suoi effetti nei termini che ho descritto; intendo solo specificare che questa partecipazione avviene come “socie di minoranza”, e avvantaggia primariamente il dominio eterosessuale degli uomini sulle donne stesse. D’altronde, la partecipazione delle donne all’eterosessualità è parte integrante dell’oppressione che subiscono: a differenza di quella degli uomini, che invece è ciò in cui propriamente consiste l’oppressione che agiscono. Nel sistema sociale eterosessuale, le donne sono moralmente e materialmente indotte a diventare quei tipi di soggetti che sono strutturalmente esposti alla maggiore vulnerabilità proprio dal normale funzionamento del sistema sociale eterosessuale stesso. Ciò è testimoniato da fenomeni come lo stupro, o come l’uccisione nell’ambito di contesti di relazione eterosessuale, i quali in effetti crescono vertiginosamente proprio nel momento in cui la presa critica sull’eterosessualità non è mai stata così debole, e anzi attivamente relativizzata o osteggiata dalle stesse minoranze che da essa derivano oppressione. Ed è davvero singolare, se si considera che l’unica possibilità di esistenza per la stragrande maggioranza delle donne continua invariabilmente a derivare dall’accompagnarsi a un uomo – dal fatto, cioè, che molto più spesso un uomo gode di ben maggiori possibilità di accesso all’economia formale. Fare la moglie, fare la mamma, occuparsi della casa e della famiglia, riprodurre la forza-lavoro, occuparsi delle attività di cura continua a costituire la principale occupazione delle donne, anche nei casi in cui svolgano un lavoro retribuito fuori casa.

Questa occasione è allora propizia per declinare l’invito a dismettere la parola “eterosessualità”, e per spiegare che quando la uso lo faccio per riferirmi a tre cose: 1) al modo di produzione delle persone, ossia alla razionalità che presiede alla produzione degli uomini e delle donne, da cui chiaramente discende che gli uomini e le donne non esistono “naturalmente” ma sono a loro volta il prodotto di un costante e performativo 2) rapporto sociale, fondato sulla trasfigurazione di questa produzione diseguale e gerarchica dei generi nella “differenza sessuale”[4], la quale assurge a sua volta a 3) metro di giudizio da cui dipende implicitamente o esplicitamente la valutazione, non meno che la possibilità, la conformità, l’inclusione condizionale, o l’esclusione radicale, di ogni forma di soggettivazione e di relazione, cisgenere o trans* che sia. Poi, certo, l’eterosessualità è anche un orientamento sessuale: senza dubbio il più conforme all’eterosessualità come modo di produzione, come rapporto sociale e come metro di giudizio.

Se parlo di “eterosessualità” in questi termini, come faceva la grande femminista lesbica e materialista Monique Wittig, senza gli ulteriori aggettivi a cui ci ha invece abituato la trattatistica accademica più recente, è per ricordare che il queer affonda le proprie radici nel femminismo e nel lesbismo; di conseguenza, per me non esiste alcuna dicotomia tra il queer e il femminismo. Auspicare la sovversione dell’eterosessualità significa auspicare la sovversione dei presupposti dell’oppressione di tutte le minoranze di genere e sessuali, e dunque anche delle donne.

Allo stesso tempo, so bene che “queer” abbia finito per indicare cose tra loro molto diverse, talvolta addirittura contraddittorie. E non so perché, in effetti, continuo a usare la parola “queer”, in presenza di un tale patente disinteresse, da parte mia, nei riguardi delle sue tante evoluzioni o piroette accademiche. Eppure persisto nell’uso della parola “queer”, come fosse uno spazio in cui ci si sente a casa, per definire un certo modo di approcciarmi teoricamente e politicamente alla sovversione dell’eterosessualità, indotto, tuttavia, da una peculiare posizione soggettiva e sociale: quella di chi, in alcuni casi, è semplicemente un frocio che, a seconda di come gira il tavolo, è troppo generoso o troppo protervo, troppo astratto o troppo materialista, troppo sensibile o troppo distante, troppo militante o troppo distante dalla piazza, uno che pensa di essere chissà chi, mentre invece farebbe bene ad abbassare la testa e a cercarsi un lavoro come commesso. E in altri casi, invece, pur non avendo alcun interesse a fruire dei dividendi eteropatriarcali, questo stesso frocio è percepito, riconosciuto e rispettato come un uomo: in quanto tale, si ritrova a occupare una posizione di relativo privilegio in quel sistema sociale eterosessuale che pure mira a sovvertire. Se assumo “queer” come parola che descriva, o sintetizzi, la mia esperienza soggettiva, la mia riflessione e il mio attivismo, allora, è perché avverto che il modo in cui è avvenuta la costituzione sociale del mio genere, non meno che il modo in cui la società attorno mi percepisce, mi impedisce di definirmi liberamente “femminista”, senza alcuna mediazione, se non al rischio di un’appropriazione indebita. (In realtà, se potessi scegliere, mi piacerebbe ancora di più definirmi “lesbica materialista”, come Monique Wittig, conscio del fatto che – come scriveva Mario Mieli – “la rivoluzione è lesbica”. Tuttavia, essendo patente la contraddizione insita in un’autodefinizione lesbica-materialista, da parte mia, accordo all’autodefinizione queer il compito di descrivere questo sentirmi pienamente rappresentato da un pensiero che, allo stato attuale dei rapporti di forza eterosessuali, non può tuttavia rappresentarmi.) Al contempo, dal momento che il queer affonda alcune delle sue radici più profonde nel femminismo[5], uno dei suoi compiti, se posso esprimermi così, dovrebbe consistere nel contribuire a indicare che cosa accomuna tra loro l’oppressione esperita dalle donne e quella esperita invece dalle altre minoranze di genere e sessuali, e testare modalità affinché queste soggettività possano lottare insieme, contro la stessa matrice di oppressione. Perché se questa matrice di oppressione è l’eterosessualità, allora né il femminismo né il queer hanno ragione di esistere al di fuori di una critica sistemica dell’eterosessualità. D’altronde, è più femminista o più queer la dichiarazione secondo cui “se al femminismo è sottesa una logica, questa consiste nella realizzazione di una società senza sessi”?[6]

In un certo senso, si tratta di ribadire l’ovvio. Ma è importante, io penso, ribadire l’ovvio, se l’ovvio appare perso di vista non solo da gran parte della teoria sociale[7], ma anche, più nello specifico, da larga parte del discorso pubblico. Si pensi, per non fare che un esempio, alla lotta contro la violenza maschile sulle donne, specialmente in questo momento di preziosa denuncia collettiva – all’insegna dell’ashtag #metoo – delle molestie e degli stupri agiti da alcuni potenti uomini dell’industria cinematografica ai danni di tantissime donne che ambivano a una carriera nel cinema: si tratta di un discorso in cui la critica sistemica dell’eterosessualità è però decisamente minoritaria, quando non del tutto assente. Il discorso sembra tutto impegnato a operare, e talvolta a costruire, rispettose distinzioni a tutela dello status quo eterosessuale: quelle tra uomini che molestano e stuprano e uomini che invece non lo fanno, quelle tra relazioni eterosessuali fondate sul dominio, e quelle fondate invece sul consenso. Chiaramente, non è qui in discussione se tali distinzioni abbiano un loro valore relativo: mi è chiaro che esistono uomini eterosessuali che non stuprano e che non molestano, e che mai lo farebbero. E non metto nemmeno in dubbio che esistano relazioni eterosessuali in cui il problema del consenso, mi auguro, è lasciato alla trattazione civilistica, dato che ad animarle dovrebbe essere il desiderio, tra cui anche il desiderio di comprendere i desideri e i bisogni reciproci, al di fuori di verbalizzazioni contrattuali di consenso informato. Ma il punto è che il problema sta tutto da un’altra parte, e finché il discorso dominante continuerà a operare questo enorme depistaggio, il problema non lo vedremo mai.

Come già rilevava Adrienne Rich nel fondamentale Eterosessualità obbligatoria ed esistenza lesbica, d’altronde, nell’ambito dell’eterosessualità esistono “esperienze qualitativamente diverse”[8]. E tuttavia, chissà se Rich avrebbe mai potuto immaginare che il suo concetto di “eterosessualità obbligatoria” sarebbe stato piegato al servizio di argomentazioni, o slogan, a difesa di un’eterosessualità “liberamente scelta”. Me lo chiedo perché quando Rich ha accostato l’aggettivo “obbligatoria” alla parola eterosessualità, nel 1980, non l’ha fatto per indicare una delle possibili declinazioni del suo oggetto di indagine critica, aprendo dunque alla possibilità che l’eterosessualità possa anche non essere obbligatoria, e dunque scelta. Al contrario, l’ha fatto per descriverlo in quanto tale: in quanto tale, infatti, l’eterosessualità è obbligatoria. (Louise Turcotte, in effetti, ci vide bene quando, commentando il saggio di Rich, concluse che parlare di “eterosessualità obbligatoria”, in fondo, fosse ridondante[9].) Sostenere che l’eterosessualità è obbligatoria, per Rich, significa resistere al “pantano” di quella “quantità di dicotomie illusorie che hanno storicamente impedito una visione complessiva dell’istituzione eterosessuale”[10]. Tra le “dicotomie illusorie”, Rich annovera quella tra “matrimoni d’amore” e “matrimoni combinati”, “sessualità liberata” e “prostituzione”, “rapporti consenzienti” e “stupro”, “amore” e “dipendenza”. Tali dicotomie, secondo Rich, sarebbero illusorie in quanto occulterebbero il ruolo svolto dall’istituzione eterosessuale nella loro determinazione, nonché del suo precedere ogni possibilità di scelta, e dunque ogni possibilità di consenso. E “in questa impossibilità di scelta”, scrive Rich, “la donna continua a dipendere dal caso o dalla fortuna di rapporti particolari”. È questo che le fa auspicare “un’aggressione coraggiosa della politica, dell’economia e della propaganda culturale dell’eterosessualità, tale da superare i limiti delle situazioni individuali”.

Il problema, come ha sottolineato in maniera pressoché isolata il teorico e attivista trans Jack J. Halberstam a latere della campagna #metoo, è che “c’è del marcio nell’eterosessualità”[11]. E proprio come lo scopo del comunismo rivoluzionario non consiste nell’eliminazione dei privilegi economici di questo o quel capitalista, bensì nella sovversione delle stesse classi economiche e sociali, nonché di una società in grado di produrre privilegi e diseguaglianze, così il nostro scopo, in quanto minoranze di genere e sessuali, non dovrebbe fermarsi alla denuncia – pur necessaria e inaggirabile – di questo o quell’uomo eterosessuale particolarmente potente e ricco. Questa denuncia, piuttosto, dovrebbe essere funzionale alla messa in evidenza del carattere sistemico dell’eterosessualità, del suo carattere totalitario, e dei danni che produce sulle donne e sulle altre minoranze, nella prospettiva della sua sovversione[12]. Nella prospettiva della sovversione, cioè, del modo di produzione delle differenze di genere in modi tali che ad abusare sia sempre chi appartiene al “maschile”, e a subire l’abuso sia sempre chi viene ascritt* invece al “femminile”.

Come sarcasticamente sottolinea Halberstam, “non tutte le relazioni eterosessuali si fondano sull’abuso. Non tutti gli uomini bianchi e potenti esercitano abusi di potere. Non tutte le donne hanno subito molestie o stupri. Eccetera eccetera. Eppure, come ebbe a scrivere una volta Jenny Holzer… l’abuso di potere non è mai una sorpresa”[13]. Ecco perché Halberstam sostiene la necessità “di affrontare la normalizzazione dell’abuso nell’ambito specifico dell’eterosessualità”, di “parlare della violenza della norma”, e soprattutto del fatto che “la violenza aleatoria che essa maschera deve essere affrontata in modo strutturale”[14]:

Abbiamo bisogno di aggredire l’eterosessualità alla radice. L’eterosessualità promuove e riproduce le gerarchie di genere, lo stupro e la soppressione delle persone femminili/zzate. Da tutto ciò, inoltre, l’eterosessualità dipende. L’eterosessualità non è l’opposto dell’omosessualità, ma della giustizia sociale[15].

Affrontare l’eterosessualità in modo sistemico e strutturale, “aggredire l’eterosessualità alla radice”, concepire l’eterosessualità non come l’opposto dell’omosessualità bensì della giustizia sociale, non significa relativizzare la responsabilità individuale dei singoli uomini eterosessuali, che quasi sempre sono gli esecutori materiali delle sentenze già latenti e implicite nel modo di produzione eterosessuale del genere. Piuttosto, significa inscrivere questa responsabilità individuale all’interno della cornice di una critica sistemica, insistendo sul fatto che l’eterosessualità è un ordine gerarchico, e che chiunque si trova a occupare il gradino più basso della gerarchia, chi non è pienamente leggibile nei termini del “maschile”, chi perviene a leggibilità solo nei termini del “femminile”, o del “femminilizzato”, chi non si conforma al modo di soggettivazione e di relazione conforme a quel maschile e a quel femminile, è differenzialmente – eppure regolarmente – esposto ai rischi che questa difformità comporta. Ossia, alla molestia, allo stupro, alla patologizzazione, alla criminalizzazione, al silenzio, alla povertà, all’indigenza, all’inclusione condizionale, all’esclusione radicale, al suicidio, alla morte precoce. Come l’attivista lesbica e socialista Marielle Franco, assassinata da due ex poliziotti a Rio de Janeiro nel marzo del 2018. Oppure, come l’attivista queer Zak “Zackie Oh” Kostopoulos, ammazzato di botte in pieno giorno da dieci uomini ad Atene, nel settembre del 2018, dopo essere stato presumibilmente sorpreso a rubare qualcosa in un negozio del quartiere Omonia. Evidentemente, ammazzare di botte un attivista queer che sta rubando qualcosa da un negozio è diventato più lecito che chiedersi chi si metterebbe mai a rubare, se le prospettive di una vita dignitosa sembrano già garantite da un ordine sociale improntato a ideali di eguaglianza sostanziale delle condizioni di vita. Zackie Oh era inoltre un attivista sieropositivo, impegnato sul fronte della lotta all’Aids, in un momento in cui la soglia dell’attenzione su questa malattia è drasticamente abbassata, nonostante il numero dei contagi non sia altrettanto drasticamente diminuito (specialmente tra gli uomini eterosessuali), e nonostante – come ha denunciato di recente il Movimento Omosessuale Sardo – vi siano ospedali pubblici in cui le risorse destinate ai reparti di malattie infettive sono sempre più esigue[16]. Oppure, come la sex worker e attivista trans Hande Kader, brutalmente uccisa, fatta a pezzi e gettata in un campo alle periferie residenziali di Istanbul, nell’agosto del 2016: poco prima era divenuta nota per la sua opposizione alla dura repressione da parte del governo turco di Erdoğan nei riguardi del Pride. A oggi non esiste alcun colpevole per la sua morte. Tutto questo è per dire che casi come questi non riferiscono semplicemente della persistenza di “pregiudizi” nei riguardi di “differenze” che bisognerebbe invece “tollerare”. Il “marcio dell’eterosessualità” sono diseguaglianze da sovvertire. E la mia idea, in proposito, è comunista: per sovvertire le diseguaglianze occorre sovvertire il presupposto da cui quelle diseguaglianze e quelle oppressioni dipendono. Ecco perché mi rifiuto di parlare di sovversione del pregiudizio omo-transfobico, o del pregiudizio sessista, o di ogni altra mediocre via di mezzo, ma parlo di sovversione dell’eterosessualità.

[1] Definizione che si deve al contributo cruciale di Adrienne Rich, Compulsory Heterosexuality and Lesbian Existence, in “Signs”, vol. 5, n. 4, 1980 (trad. it. di Maria Luisa Moretti, trascrizione di Nerina Milletti, Eterosessualità obbligatoria ed esistenza lesbica, in “Nuova DWF”, nn. 23-24, 1985).

[2] Nancy Fraser, Eterosessismo, mancato riconoscimento e capitalismo, in Ead., Fortune del femminismo. Dal capitalismo regolato dallo stato alla crisi neoliberista, trad. it. di Anna Curcio, ombre corte, Verona 2014, p. 215.

[3] Cfr. Bruce LaBruce, I hate straights. Forget about fag bashing. It’s time for a little equal opportunity straight bashing, in “Vice”, 1 dicembre 2004. Il titolo dell’articolo di Bruce LaBruce riprende un paragrafo del celebre volantino “pubblicato anonimamente da alcuni froci”, e distribuito durante il Pride di New York del 1990: Queers Read This (ora disponibile online, http://www.qrd.org/qrd/misc/text/queers.read.this).

[4] Questo è per specificare che quando uso la parola “eterosessualità”, includo già in essa il concetto di “patriarcato”.

[5] Le stesse Teresa de Lauretis, Judith Butler e Eve Kosofsky Sedgwick, solitamente annoverate tra le capostipiti (più o meno consapevoli) di una teoria queer, si descrivono tutte come femministe.

[6] Mi riferisco chiaramente alla femminista radicale Ti-Grace Atkinson. Cfr. Ead., Amazon Odissey, Links Books, New York 1974.

[7] Dalle colonne di una rivista scientifica accademica, inaspettatamente, Kristen Schilt e Laurel Westbrook definiscono l’eterosessualità “undertheorized”. Cfr. Ead., Doing Gender, Doing Heteronormativity. Gender Normals, Transgender People, and the Social Maintenance of Heterosexuality, in “Gender & Society”, vol. 23, n. 4, 2009.

[8] Adrienne Rich, Eterosessualità obbligatoria ed esistenza lesbica, cit.

[9] Louise Turcotte, Cambiare punto di vista, Prefazione a Monique Wittig, Il pensiero eterosessuale (1992), a cura di Federico Zappino, ombre corte, Verona 2019, p. 10.

[10] Adrienne Rich, Eterosessualità obbligatoria ed esistenza lesbica, cit.

[11] Jack J. Halberstam, Whiners, Weinsteins, and Worse, in “BullyBloggers”, 23 ottobre 2017.

[12] Sul punto, cfr. Shulamith Firestone, The Dialectic of Sex: The Case for Feminist Revolution, William Morrow and Company, New York 1970.

[13] Jack J. Halberstam, Whiners, Weinsteins, and Worse, cit.

[14] Ibidem.

[15] Ibidem.

[16] Come la Clinica di malattie infettive di Sassari, ad esempio. Cfr. Movimento Omosessuale Sardo, Aids: Sassari, nel caos assistenza e prevenzione, 16 gennaio 2019, http://www.movimentomosessualesardo.org/. Il MOS si è assunto l’onere di sopperire a proprie spese alle carenze del servizio pubblico consentendo a chiunque di effettuare nei propri spazi il test per l’HIV in forma anonima e gratuita, alla presenza di personale medico e di supporto psicologico.

Federico Zappino Eterofobia