Social network, genere e nuove fragilità emotive

Università della calabria  15 aprile 2019, ore 11:00-13:00
Aula seminari “Giovanni Arrighi”, piano terra cubo 0B
Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali

 

Con la diffusione su larga scala degli smartphone, avvenuta in meno di dieci anni, tutti siamo certi di sapere usare gli strumenti tecnologici, ma è davvero così? È ormai un tabù dire che ci si sente poco inclini all’informatica e nemmeno esiste più chi scherzosamente si definisce un “utonto”. Ognuno conosce le migliori applicazioni gratuite che il web ci mette a disposizione e i nostri device sono diventati abituali strumenti di uso quotidiano. Nel giro di pochi anni siamo diventati tutti esperti.

Cos’è successo? Non siamo noi ad essere migliorati, sono le interfacce che sono state parecchio semplificate. Le interfacce, già. La tecnologia invece è rimasta una materia complessa e difficile, esattamente come dieci anni fa. Quando un bambino di quattro anni prende lo smartphone e guarda un cartone animato su youtube non è perché è un genio, e nemmeno perché è un nativo digitale (infatti i nativi digitali non esistono[1]). Succede perché l’intero sistema complesso che ha a disposizione (dall’hardware al software) è stato progettato per includere tutt*. Nessuno deve avere difficoltà nell’usare la “tecnologia”, ma non perché sia uno strumento di emancipazione, bensì perché si tratta di un prodotto di consumo globale!

La “conoscenza” e l’“uso” hanno preso due direzioni diverse. Conoscere è un esercizio faticoso che implica ascolto, silenzio e concentrazione. Usare qualcosa invece può essere anche molto semplice. Le interfacce commerciali prediligono l’uso, cercando di mantenere un carico cognitivo basso, si definiscono infatti “intuitive”, “usabili”, “user friendly”. L’azione dell’utente deve poter essere “automatica” cioè il più possibile immediata, come l’esecuzione di una procedura nota al punto di non richiedere esitazioni.

Mentre riflettere rallenta i movimenti e raffredda le emozioni, i social hanno bisogno di velocità per spingere al massimo le interazioni; il profitto infatti si basa sull’ottenimento di quanti più dati possibili sull’identità e i legami sociali degli utenti[2]. L’impulso continuo di sollecitazioni e la gratificazione tramite punteggio (stelline, condivisioni, like, ecc.) ci mantiene disponibili al controllo costante delle notifiche. In questo senso possiamo dire che l’utente viene addestrato ad un comportamento produttivo secondo le regole dell’apparato[3].

Ma anche che l’utente viene assuefatto all’uso e quindi cercherà di aumentare la propria prestazione per mantenere alte le gratificazioni emotive.

Il ritmo sostenuto della performance produttiva facilmente però si trasforma in ansia da prestazione, depressione e senso di inettitudine. Ed è qui, affacciandoci sull’orlo dei nostri baratri, che si riscopre il valore politico e formativo dell’antiproibizionismo, perché se il social è “stupefacente”, proibire non è una soluzione efficacie.

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Si veda anche il seminario intensivo Matter of Identity tenuto presso Naba Nuova Accademia di Belle Arti di Milano